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LA VOCE DELLA LUNA Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 8 maggio 1990
 
di Federico Fellini, con Roberto Benigni, Paolo Villaggio, Syusy Blady, Nadia Ottaviani, Marisa Ottaviani (Italia, 1990)

"Ogni film di Fellini, si diceva a proposito del suo precedente INTERVISTA è, prima di ogni altra cosa un autoritratto; e LA VOCE DELLA LUNA non sfugge a questa regola. Cosi come non deroga all'altra particolarità del cinema di Fellini, quello che Ingmar Bergman in LATERNA MAGICA accomunava a Tarkovski: il fatto di muoversi nello spazio dei sogni.

Un autoritratto nello spazio dei sogni. Condannato dalle due costanti del proprio genio a muoversi in eterno fra questi due poli di attrazione Fellini, ancor meno di qualsiasi altro suo collega cineasta non può allora sottrarsi a quella che diventa la sola possibilità di guardare alla sua opera: la ricerca della qualità di questo sogno, che è poi indagine sulla qualità del suo sguardo cinematografico. Ecco allora spiegata la ragione per la quale ogni film di Fellini è accolto, quasi immancabilmente, con entusiasmi ma anche con reticenze. Ecco spiegato che si possa ancora discutere, ad ogni nuovo film di un monumento consacrato ed ormai settantenne, sulla possibilità o meno di essere "felliniani".

Questo poiché il giudizio - trattandosi di sogni infinitamente ripresi - non verte tanto sull'interesse di un'idea, di un soggetto; o sull'originalità di una sceneggiatura convenientemente messa in scena. Ma piuttosto - in una sorta d'impietosa, eterna rimessa in questione del tutto assente per altri maestri ormai indiscussi dell'arte del cinema, come Bergman, o Bunuel, o Kubrick - sulla freschezza d'ispirazione, sulla fertilità di un'inventiva che non può mai esimersi dal procedimento, seducente e pericoloso, dell'autocitazione.

Ecco spiegata, ancora la ragione per la quale il cinema di Fellini, per esprimersi in tutta la sua grandezza, ha bisogno di ancorarsi ad un fatto, ad una progressione drammatica, ad un personaggio, un avvenimento ben preciso. Se è vero che i film più grandi di Fellini, quelli che possiamo rivedere all'infinito senza rischio di cadere nell'ammirazione ma anche nell'irritazione per quella facilità che soltanto i più grandi possono permettersi, sono quelli della vena di OTTO E MEZZO, LA DOLCE VITA, CASANOVA, AMARCORD o E LA NAVE VA è proprio perché in queste opere l'arte visionaria dell'autore è sottomessa ad un giogo: quello di dover render conto di un elemento drammatico (storico, autobiografico, aneddotico, biografico) ben determinato fin dall'inizio.

Privato di questa costrizione, lasciato se così si può dire libero a sé stesso, il talento visionario di Fellini si ringalluzzisce per questa libertà concessagli, e sembra esplodere in mille direzioni. Ma finisce col mordersi la coda: come ne LA VOCE DELLA LUNA, un film, come dice l'autore stesso, "inventato giorno dopo giorno, dopo aver tentato lo scheletrino di qualcosa che sembrasse una sceneggiatura". Succede così che un film della maturità, che dovrebbe riprendere - sublimandoli - il piacere struggente del ricordo di AMARCORD, la critica esistenziale de LA DOLCE VITA, i ritmi da road-movie de LA STRADA o le divagazioni pseudo-femministe de LA CITTÀ DELLE DONNE, che altro non dovrebbe rappresentare insomma se non un'occasione di serena rivisitazione del Mito dell'autore riveduto e corretto dall'aria dei tempi, diventi invece occasione del cataloghino un po' misero degli alti, e dei bassi, verrebbe a dire di sempre.

Tra i primi, certamente, la consacrazione di una coppia d'attori perfetta: tutta la rabbia che il regista sembra aver ritrovato nel romanzo IL POEMA DEI LUNATICI di Ermanno Cavazzoni, Paolo Villaggio riesce a mutarla in una disperazione ormai dimentica di fantozziane frustrazioni. E bisogna aver visto Benigni gonfiarsi a dismisura, saltellando come un folletto sotto il palco delle miss, per rendersi conto di come occorra la mano di un grande regista per trasformare in segno una comicità sostanzialmente verbale.

Come in tutto il cinema degno e come si è visto particolarmente, in quello di Fellini, LA VOCE DELLA LUNA è un affare di voyeurismo. Non solo perché il nostro modo di vivere con la luna è fatto di spiate reciproche, ma perché tutte le scene forti del film nascono da uno sguardo che, tramite la cinepresa, spia qualcosa o qualcuno. Sorrette da un'ispirazione volitiva e discontinua, esse finiscono talvolta per il meglio: i discorsi con quell'aldilà che si situa in fondo ad un pozzo dove si tengono i cocomeri al fresco, la quieta solitudine di un leopardiano Benigni sul mare infinito dei tetti invasi dalla antenne televisive, lo sbuffare grottesco dell'omino piccolo piccolo, catturato dall'amplesso dall'enorme virago, in uno di quei profili popolareschi dei quali il regista detiene il segreto.

O per il peggio: la festa dei gnocchi che diventa della gnocca, per far rima con un CIP di goliardica allusione. Il ballo fracassone in discoteca, concluso dal valzer di Villaggio, stranamente svuotato di ogni poesia. O il balletto futile - e risaputo - dell'ufficialità, con preti ed onorevoli a farsi largo sulle solite Mercedes.

"Come mi piace ricordare, più che vivere", fa ripetere l'autore ai propri personaggi; "Nulla si sa, tutto s'immagina". Parrebbe il manifesto del cinema di Fellini: ma anche i manifesti, vanno suggeriti, non tanto proclamati.


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